La forza dei libri più belli è quella di creare paesaggi propri, che si ricordino dopo la lettura come un viaggio al limite dell’onirico, un mondo attraversato. Ilaria, di Gabriella Zalapi, è uno di questi libri, e il mondo che ci fa attraversare è quello di una bambina di 8 anni che il padre rapisce nella primavera del 1980 per una sorta di lunga peregrinazione italiana, in auto, di albergo in albergo, senza una vera meta, da Torino alla Sicilia…
È la bambina a parlare, al presente, e non sappiamo quanto durerà questo strano viaggio, dove paura e curiosità si mescolano in una strana suspense sommessa. Allontanata dalla madre e dalla sorella maggiore da un “papà” che si sta ancora riprendendo dal divorzio, la narratrice descrive con mirabile semplicità l’ambivalenza dei sentimenti e la complessità di un uomo stravolto, al volante della sua BMW, che si ferma spesso nelle stazioni di servizio per telefonare all’ex moglie o inviarle telegrammi.
La bellezza del libro non sorprende chi ha letto le opere precedenti di Gabriella Zalapi, Antonia et Willibald (2019 e 2022), il cui delicato intarsio familiare è per certi versi continuato da Ilaria, che aggiunge un nuovo nome di battesimo alla serie. Ritroviamo, un po’ spaesati, personaggi già conosciuti (la madre, Antonia, e la sorella, Ana) e, fin dalla prima pagina, notiamo che la narratrice è nata nello stesso anno della scrittrice, il 1972, e che i loro ricordi potrebbero essere comuni… Risulta quindi difficile fare a meno di chiedere a Gabriella Zalapi se lei è Ilaria. «Sì», risponde subito, «Questa storia mi è successa quando avevo 8 anni: ho passato quasi due anni così, in viaggio con mio padre. Sono vicende reali, intrecciate con elementi di fantasia, ma soprattutto ho voluto rimanere sul leggero, perché se avessi raccontato semplicemente la ‘mia verità’, questo testo sarebbe stato insopportabile».
In effetti, anche se la storia si tinge di un’angoscia sorda perché sospettiamo che il padre sia imprevedibile, non è uniformemente cupa e può persino essere scanzonata: Ilaria prova sentimenti contraddittori, è una bambina intraprendente che si diverte nelle situazioni, ama disegnare, gioca a “impiccare il maiale” e sogna il suo idolo, Nadia Comaneci… Tuttavia, di fronte al padre irascibile, che beve sempre di più e la mette addirittura in un collegio romano per qualche settimana, la bambina vive un’esperienza terribile, che fa pensare a come l’adulto di oggi possa averla rivissuta, scrivendone.
«La scrittura non è stata facile», ammette l’autrice: «All’inizio ho scritto tutto in terza persona, per mantenere una certa distanza, e solo dopo sono riuscita a passare all’”io”, quando Ilaria è diventata un’altra persona, in un certo senso. È un racconto di paura, certo: la paura è un filo conduttore, non è mai passata, il trauma è ancora lì, e scrivere questo libro non è servito a curarlo… A volte, quello che ho vissuto è stato addirittura dell’ordine del terrore, e lo sento ancora nel mio corpo: è come qualcosa di radioattivo! Tuttavia, non volevo dare tutto lo spazio al negativo, e mi sono prefissato, quando ho iniziato questo testo, di uscire completamente dalla relazione carnefice-vittima. Ho semplicemente seguito il consiglio di Rilke di dedicarsi a cose che solo noi possiamo scrivere, per necessità… Mi sono detto che se c’era una storia che solo io potevo raccontare, era questa.»
Ciò che colpisce, in ogni caso, è la misura in cui la scrittrice trasmette nelle sue parole, nelle sue inflessioni, persino nei suoi silenzi, l’estrema sensibilità che troviamo nei suoi libri. Potrebbe essere qualcosa come una traccia dell’infanzia? «L’infanzia è molto importante nei miei libri: c’erano bambini anche in Antonia e in Willibald, dove ricorre il tema essenziale della disobbedienza, per esempio attraverso il quadro che rappresenta il sacrificio di Abramo, che è al centro della storia.» Il sottotitolo di Ilaria è La conquista della disobbedienza, ma in origine avevo intitolato il libro Il fallimento della disobbedienza... Diciamo che ho fatto un po’ di luce, ma non è stato facile per questa bambina sfuggire al tipo di reclusione paterna che ha subito. Scoprire l’arte è stato per lei un modo per resistere.
«Mi interessava molto quel periodo», spiega l’autrice, «e mi sembrava che questo paesaggio politico, con tutto il suo potenziale di violenza e irresolutezza ancora oggi, facesse naturalmente eco al rapporto tra Ilaria e suo padre… Per quanto riguarda la storia delle autostrade italiane, è una cosa che ho studiato da vicino, perché volevo offrire al lettore dei luoghi familiari, degli spazi con un forte impatto visivo, di cui potersi facilmente appropriare, anche se la storia che viene raccontata è molto singolare.»